[Einaudi, Torino 2009]
Nell’Ubicazione del bene, raccolta di nove racconti brevi usciti per Einaudi, Falco descrive una nuova generazione di figure letterarie. I suoi personaggi si sono da poco trasferiti nelle villette di Cortesforza, città immaginaria tra Vermezzo e Abbiategrasso, nell’hinterland milanese. Le loro storie sono legate ad un’unità di luogo, ma non a una comunità: gli abitanti di Cortesforza, uomini e donne fra i trenta e i quarant’anni, si muovono soli, a scatti; ogni gesto è un taglio netto e isolato registrato in uno stile asettico, che prende in prestito i suoi moduli dalle formule delle perizie burocratiche già a partire dal titolo, sospeso tra accezione giuridica e accezione morale; una scrittura coniugata quasi sempre al presente e articolata in brevi blocchi separati da bianchi tipografici, come se la vita si fosse ridotta alla serialità degli eventi.
I racconti risultano piuttosto omogenei nei temi e nelle atmosfere, finendo per costruire una sorta di narrazione corale delle periferie, di una nuova topografia urbana e interiore: i personaggi decidono di avviare una nuova azienda o di cambiare macchina, di fare un figlio o di prendere un cane; i desideri si equivalgono e quasi mai si realizzano. Molti comprano case per riempire di oggetti – se non di senso – il nudo spazio che abitano: «se avessi un giardino, la mia vita sarebbe diversa» (p. 129), dichiara uno di loro. E infatti giardini, capannoni, metri quadrati, numeri civici si stagliano su uno sfondo vuoto; gli oggetti si susseguono minuziosamente e la loro forma è l’elenco. E come le cose, anche i personaggi sono ridotti ad una lista di nomi qualsiasi: non più i segnali di un’identità particolare, ma piuttosto i sintomi di un’espropriazione; sono i Michele, Monica, Alessandra «come tutti».
Ma a impressionare più di ogni altra cosa, in questi racconti, è l’immobilità incredula che pesa su tutti i personaggi. Non c’è storia, non c’è destino, non un soffio di futuro sulle loro decisioni improvvise, il gioco minuscolo di vittorie e sconfitte, le gite presto dimenticate. Gli everymen di periferia non sono quindi meno feriti dei loro predecessori letterari, ma in modo più sordo e inconsapevole: soffrono, ma come se non ne sapessero più il motivo. Il mondo sta davanti a loro come una parete non attraversabile: «fuori accadono delle cose, cose misteriose, opache, trasparenti, circondate dalla luce appiccicata al plexiglas» (p. 49). Eppure, di racconto in racconto, su tutto cola un’atmosfera grottesca e drammatica insieme, un’aria quasi di consunzione; come se Cortesforza non potesse essere che un “sotto-mondo”, il «fondo del bicchiere» di un’altra vita più vera.
Le formiche sbriciolano le case appena costruite, la verdura fa i vermi, le pulci invadono auto e appartamenti. Questo orizzontale consumarsi – l’erosione segreta di cose e persone – sembra essere allora l’unica, sottile ma indubitabile contraddizione all’immobilità del presente. Nel riverbero compatto del plexiglas ci sono ancora dei punti deboli, le fessure attraverso cui riescono a penetrare gli insetti e gli animali, ma anche il presentimento del cancro o un temporale. Questo filo rosso che attraversa tutti i racconti sembra portarne allo scoperto la parte sotterranea, l’inquietudine non detta: la materia cieca e consumata che si contrappone alla nitidezza degli oggetti alienati, il brulichio dei «vivi che finiscono». Si tratta forse del presentimento dell’unico tempo ancora possibile, quello organico, della pura durata animale e della distruzione a venire.
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